La S. C. di Cassazione, con la pronuncia n. 25191/14, risolvendo il contrasto tra le sezioni semplici, ha affermato il principio secondo cui non è configurabile il concorso di reati tra riciclaggio e reimpiego di denaro, beni od altra utilità provenienti dal reato di associazione mafiosa e il reato ex art. 416 cp, qualora tali proventi siano direttamente riconducibili all’attività illecita posta in essere dall’organizzazione stessa.

Nel caso in esame le ingenti somme di denaro erano ricavate dalle attività illecite (quali i profitti derivanti dalla gestione dei videopoker, vendita sul mercato estero di autovetture di grossa cilindrata acquistate in leasing e mai pagate ed alle estorsioni nei cantieri finalizzate alla compravendita di materiale proposto in regime di monopolio dalla cosca) poste in essere dalla struttura associativa e organizzativa del c.d. “clan dei casalesi”, tali somme venivano poi reimpiegate tramite una società, avente ad oggetto l’erogazione del credito al consumo.

In primis occorre inquadrare l’excursus normativo che ha introdotto nell’ordinamento i reati di cui all’art. 648-bis e ter cp: con il D.L. n. 59/78 (convertito e modificato dalla L. n. 191/78) veniva introdotto la nuova fattispecie volta a punire le condotte di “riutilizzazione” dei beni provenienti da un gruppo chiuso di delitti, condotte che in precedenza venivano ricondotte nella previsione della ricettazione, del favoreggiamento personale o reale. Il reato in esame assumeva una funzione sussidiaria rispetto al reato presupposto, di cui tuttavia ne condivideva l’oggetto giuridico di tutela del patrimonio e prevedeva, altresì, l’esclusione rispetto all’ipotesi del concorso con il reato presupposto. Successivamente vennero apportate modifiche all’art. 648-bis cp dalla L. n. 55/90 (sulla scorta della adesione dell’Italia alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico di stupefacenti c.d. Convenzione di Vienna 20 dicembre 1990, convertita in L. n. 328/90) tali per cui la fattispecie incriminatrice assumeva la nuova dicitura di “riciclaggio” ed estendeva, altresì, il novero dei reati presupposti, ed anche l’oggetto materiale della condotta stessa. Le nuove modifiche eliminavano ogni richiamo al dolo specifico e ne aggravavano il trattamento sanzionatorio. Con la L. n. 328/93 (ratifica della Convenzione sul riciclaggio adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo in data 8/11/1990) dalla fattispecie in oggetto veniva eliminata la categoria “chiusa” dei reati-presupposti, estesa, quindi, a tutti i delitti dolosi. Parallelamente la L. n. 55/90 ha introdotto l’art. 648-ter cp, la quale configurava come reato la condotta volta a reimpiegare in attività economiche o finanziarie i proventi descritti nella fattispecie precedente. Anche in tale caso il Legislatore ha voluto “disegnare” la fattispecie in via residuale rispetto ai precedenti delitti di ricettazione e riciclaggio, stante il fatto che lo stesso ha voluto, inoltre, coprire ogni ulteriore ed eventuale operazione connessa alla reimmissione nel circuito del denaro c.d. “ripulito”.

Così come sul piano normativo si sono rincorse le modifiche e gli aggiustamenti delle fattispecie or ora prese in esame, così anche la giurisprudenza di legittimità ha, di volta in volta, espresso un orientamento significativamente discorde. Dapprima la Corte ha voluto valorizzare la finalità dissuasiva volta all’acquisizione di vantaggi patrimoniali, dopodichè ha inteso la seconda fattispecie come una forma “specifica” di ricettazione, poi si è passati ad esaminare la natura pluriffonsiva di detti illeciti penali e di conseguenza il rapporto di specialità tra il delitto di riciclaggio e quello di reimpiego, sino infine a “decretare” l’autonomia, seppur in via residuale, dei reati predetti.

Orbene la Cassazione ha ritenuto di trattare la connotazione delle fattispecie di reato descritte dalle norme e la clausola di riserva contenuta nell’incipit dei due articoli. Infatti tale clausola è stata variamente interpretata: in primis è stata intesa ad esprimere un rapporto di sussidiarietà espressa volta a delineare un concorso apparente di norme, tale tesi, successivamente, è stata ampiamente criticata in ragione del fatto che le condotte descritte sono profondamente divergenti e che la sussidiarietà richiede o diversi gradi di offesa ad un medesimo bene o la convergenza nella delineazione di un complessivo assetto di tutela in relazione a determinati interessi. Altra parte della giurisprudenza ha sottolineato il fatto che il disvalore della condotta conseguente si esplica già nell’antefatto criminoso, pertanto, ne comporta l’aggravarsi delle conseguenze inerenti le attività post-factum.

Sciolto, comunque, ogni dubbio circa la ricostruzione dogmatica della clausola di riserva il Collegio evidenzia che la mancata contestazione di tali reati a chi abbia concorso o commesso il delitto presupposto costituisce una deroga ai principi generali in tema di concorso di persone nel reato (artt. 110 e ss. cp), in quanto la valutazione del disvalore dei fatti è ricompresa nel solo reato presupposto.

Nel caso di specie la Corte di Piazza Cavour è stata chiamata a verificare se il delitto di associazione mafiosa possa costituire di per sè stesso fonte di proventi illeciti, indipendentemente dalla commissione dei singoli reati-fine.

Ben noto alla cronaca nera è il fatto che le varie organizzazioni criminose di stampo mafioso (che operano sul nostro territorio) si sono adeguate ai tempi moderni e ad oggi sono attive nei più svariati settori, in quanto attività principale delle stesse sono il riciclaggio e il reimpiego dei proventi derivanti dalle attività criminose in attività economico-produttive “lecite”. Tanto che il Legislatore ha inteso inserire come misura di sicurezza reale la confisca c.d. obbligatoria dei beni derivanti da tali attività, al fine di “strozzare” l’organizzazione di cui all’art. 416-bis cp.

Dalla costruzione del reato di associazione mafiosa e in particolare osservando il 7° co. va da sé che l’organizzazione criminosia sia produttiva di ricchezze illecite. Sostenere il contrario, ossia che il riciclaggio ed il reimpiego sia direttamente derivanti dai reati-fine comporterebbe una dissacrante irrazionalità, poiché sarebbero soggetti a confisca solamente i proventi derivanti dalle attività gestite con il metodo “mafioso” (e non ai singoli reati-fine) e pertanto la stessa sarebbe solamente facoltativa ai sensi dell’art. 240 cp.

La Suprema Corte arriva, dunque, ad affermare il seguente principio di diritto: “il delitto presupposto dei reati di riciclaggio (art. 648-bis cp) e di reimpiego di capitali (art. 648-ter cp) può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti”.

Orbene occorre verificare se il reato presupposto di cui all’associazione mafiosa rappresenta l’antecedente logico circa l’applicabilità della clausola di riserva al concorrente nell’associazione o nel partecipe.

Il discrimine circa l’applicabilità dell’art. 416-bis cp come reato presupposto dei reati di riciclaggio e di reimpiego si sostanzia nel differente comportamento posto in essere dall’imputato: qualora il soggetto si adoperi solamente per la “ripulitura” dei proventi e, quindi, non apporti alcun contributo all’associazione, si integrano i presupposti di cui agli artt. 648-bis e ter cp, mentre nel caso in cui l’affiliato ripulisca e reimpieghi i proventi dei reati-fine a cui lo stesso non abbia partecipato, non opera la clausola di esclusione della responsabilità di cui agli artt. 648-bis e ter cp, in quanto l’oggetto dell’attività tipica del riciclaggio non è in diretta connessione con il reato con cui esso concorre. In buona sostanza si esclude che venga integrato il delitto di riciclaggio e conseguente reimpiego del denaro effettuato da uno dei soggetti associati alla struttura criminosa, in quanto attività strettamente collegata all’esistenza dell’associazione stessa, al punto che si dovrebbe ipotizzare un “autoriciclaggio”.

Pertanto i giudici di legittimità hanno affermato un ulteriore principio di diritto tale per cui “non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter cp e quello di cui all’art. 416-bis cp, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa”.

In conclusione “in assenza di qualsiasi specificazione normativa” – afferma la Corte – “i proventi destinati all’assunzione o al mantenimento del controllo delle attività economiche possono anche derivare da delitti commessi da terzi che li affidino successivamente all’associazione mafiosa senza partecipare alla gestione del relativo programma”. Pertanto il doveroso coordinamento tra l’art. 648-bis cp e l’art. 416-bis cp porta ad escludere che il singolo associato possa rispondere anche del delitto di reimpiego, non consentendolo la clausola di esclusione posta nell’incipit dell’art. 648-ter cp e avente, quindi, connotazione generale. Ed infine, la lettera del 6° co. art. 416-bis cp, osta a che l’associato possa essere punito per il post-fatto di autoriciclaggio.

E, dunque, la Corte afferma il terzo principio di diritto tale per cui “l’aggravante prevista dall’art. 416-bis cp, sesto comma, è configurabile nei confronti dell’associato che abbia che abbia commesso il delitto che abbia generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego”. 

Gli “ermellini”, poi, si sono spinti oltre ed hanno effettivamente sancito (eccedendo dalla loro naturale investitura di giudici di legittimità ed entrando nel merito della vicenda) un ulteriore principio di diritto tale per cui: “i fatti di “auto” riciclaggio e reimpiego sono punibili, sussistendo i relativi presupposti, ai sensi dell’art. 12-quinquies D.L. n. 306/92, convertito con modificazioni nella L. n. 356/92”.

La fattispecie inquadrata dai giudici della Suprema Corte è volta, comunque, a non lasciare vuoti sanzionatori circa determinati comportamenti posti in essere da soggetti affiliati alle associazioni della criminalità organizzata. Infatti la condotta tipizzata dal Legislatore è una condotta generica ed unico presupposto sancito risulta essere quello della creazione di una situazione di formale apparenza della titolarità di un bene, difforme tuttavia dalla realta sostanziale, e nel mantenimento consapevole e volontario della stessa.

A modesto parere della scrivente la Suprema Corte ha fatto uscire dalla porta il reato presupposto di associazione mafiosa quale organizzazione volta a produrre richezze illecite (i quali reati residuali della ricettazione e reimpiego sono strettamente connessi ed implici alla stessa “vita” dell’organizzazione criminale), discriminando l’applicazione del concorso con i reati di cui agli artt. 648-bis e ter cp sulla base della sussistenza, tra il soggetto che pone in essere tali condotte di “ripulitura” dei proventi illeciti e l’organizzazione, del vincolo di affiliazione; facendo rientrare dalla finestra il comportamento dell’imputato qualificandolo come “trasferimento illecito e possesso ingiustificato di valori” (art. 12-quinquies L. n. 356/92).

Si può essere d’accordo o meno circa la configurabilità del reato di cui all’art. 12-quinquies L. n. 356/92, almeno per certi versi e con certe peculiari caratteriste da rinvenirsi di volta in volta nel caso di specie, ma ciò che preme sottolineare è come i giudici di legittimità abbiano per l’ennesima volta affermato dei princi di diritto scendendo nel merito della civenda processuale, in spregio alla loro funzione istituzionale di giudici di legittimità e non di merito.


Francesca Bettocchi

(bettocchi@nirolatorretta.com)

Avvocato in Bologna


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