La presente trattazione intende affrontare un aspetto non poco critico che porta con sé notevoli problemi di ordine pratico anche alla luce di recenti pronunce di merito, si veda la sentenza 88/3/14 della C.T. Prov. di Enna, riguardanti la legittimazione passiva, la contestazione e la prova nel processo tributario.

La vicenda prende spunto da una cartella di Equitalia che il contribuente impugnava deducendo tra gli altri motivi anche quello di inefficacia del ruolo, recante l’iscrizione del debito per cui si procedeva, per omessa sottoscrizione di esso da parte del titolare dell’Ufficio o di funzionario delegato.

Giova brevemente rammentare che la cartella assume la mera connotazione di “contenitore” del ruolo, difatti così come dispone l’art. 12 DPR 602/73 l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente per territorio, forma i ruoli, distinti per ciascuno degli ambiti territoriali nei quali i concessionari operano. Il ruolo è sottoscritto – anche mediante firma elettronica – dal titolare dell’Ufficio o suo delegato, e la sottoscrizione rende il ruolo esecutivo.

Ora tornando all’oggetto della presente trattazione il ricorso evoca in giudizio il solo concessionario in particolare, il problema che qui si pone è quello di stabilire se la chiamata in causa, prevista dall’art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999 che va letto in combinato disposto con l’art. 81 del c.p.c. che in tema di sostituzione processuale sancisce “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”, la norma in analisi sancisce il divieto di far valere in giudizio i diritti altrui in nome proprio. Di conseguenza, la sostituzione processuale rappresenta una deroga a tale principio perché dissocia la titolarità dell’azione dalla titolarità della situazione sostanziale dedotta nel processo e proprio per questo è consentita solo in ipotesi specificamente previste così come è nel caso previsto dall’art. 39 del D.Lgs. 112/1999.

Ciò premesso oggetto della trattazione è il comprendere se quanto previsto dall’art. 39 D.Lgs. 112/1999 possa essere assimilata all’intervento coatto su istanza di parte, disciplinato dagli artt. 106 e 269 c.p.c., ovvero se debba, più correttamente, essere equiparata ad altri istituti, anche non processuali, presenti nel nostro ordinamento giuridico.

Vale giustappunto, rammentare quanto disposto dall’art.39 del D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112 (decreto che disciplina il riordino del Servizio nazionale della riscossione ed i rapporti tra agente della riscossione ed ente creditore), che dispone: Il concessionario, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi, deve chiamare in causa l’ente creditore interessato; in mancanza, risponde delle conseguenze della lite.

A tale proposito, valgano le seguenti considerazioni.

L’art. 106 c.p.c. disciplina l’intervento del terzo su istanza di parte, e contempla due tipi di chiamate in causa: la chiamata in garanzia e la chiamata per comunanza di lite.

La chiamata in garanzia è quella attraverso la quale una delle parti chiama in causa un terzo, dal quale pretende di essere manlevata. Esempio tipico è quello che si ha quando una delle parti chiama in causa la propria compagnia di assicurazione.

La chiamata per comunanza di lite ricorre, invece, quando il terzo chiamato è titolare di un rapporto giuridico connesso, per il titolo o per l’oggetto, con quello dedotto in giudizio.

Entrambe le fattispecie predette sono finalizzate a rendere opponibile la sentenza che definisce il giudizio anche nei confronti del terzo chiamato, che, a seguito dell’acquisizione della qualità di parte, ne dovrà subire l’efficacia. La chiamata in causa, di cui all’art. 39 del D. Lgs. n. 112/1999, si distingue nettamente dalle fattispecie processualcivilistiche disciplinate dall’art. 106 c.p.c..

Innanzitutto, si differenzia dalla chiamata in garanzia, perché il garantito non ha alcun obbligo di chiamare in causa il garante, mentre l’art. 39 prevede espressamente l’obbligo per l’agente della riscossione di chiamare in causa l’ente creditore, sanzionando l’inadempimento di tale obbligo con il risarcimento del danno in caso di soccombenza.

Inoltre, è radicalmente diverso il rapporto tra garante e garantito, che è accessorio rispetto al rapporto principale oggetto di causa, rispetto a quello tra agente della riscossione ed ente creditore.

L’ente creditore, infatti, è il titolare del rapporto sostanziale, di cui si controverte, la cui riscossione coattiva è affidata  ex lege all’agente della riscossione, che assume, pertanto, la veste di adiectus solutionis causa e di sostituto processuale dell’ente impositore. La chiamata in causa ex art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999 si distingue, infine, da entrambe le fattispecie disciplinate dall’art. 106 c.p.c. – si ribadisce, entrambe finalizzate ad estendere l’efficacia del provvedimento che definisce il giudizio anche al terzo chiamato – perché la sentenza pronunciata in una controversia tra il contribuente e l’agente della riscossione è direttamente efficace nei confronti dell’ente creditore, anche se non chiamato in causa, come si evince dal chiaro disposto normativo dell’art. 39 in esame. E, infatti, se è vero, come è vero, che l’agente della riscossione è obbligato al risarcimento del danno, in caso di omessa chiamata in causa, è evidente che la sentenza, che definisce il giudizio, è direttamene efficace anche nei confronti dell’ente creditore, poiché, altrimenti, non sussisterebbe il presupposto per alcun risarcimento.

Al contrario, la chiamata in causa prevista e disciplinata dall’art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999, invece, è esclusivamente preordinata a rendere edotto l’ente creditore della pendenza della lite e dei motivi di ricorso, così da consentirgli, ove lo ritenesse opportuno, di intervenire volontariamente nel giudizio in corso, per spiegare le proprie difese in relazione ai vizi dell’atto al medesimo imputabili. Alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente che l’art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999 non contempla una fattispecie processuale sussumibile nella previsione dell’art. 106 c.p.c., bensì una ipotesi di semplice denuncia della lite ovvero di  litis denuntiatio, istituto, di natura meramente sostanziale, già previsto in specifiche disposizioni di legge, che ha lo scopo di mettere il terzo in condizioni di potere intervenire. Si pensi, ad esempio, all’art. 1586 del codice civile, relativo ai rapporti tra locatore e conduttore, oppure all’art. 1777, secondo comma, sempre del codice civile, relativo ai rapporti tra depositante e depositario.

In altri termini, la chiamata in causa prevista dall’art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999 non ha natura processuale, bensì sostanziale.

Conferma quanto sopra esposto la stessa collocazione topografica della norma, inserita nel provvedimento normativo che disciplina proprio il rapporto (squisitamente di natura sostanziale) tra agente della riscossione ed ente creditore, in relazione all’affidamento al primo del servizio di riscossione delle entrate tributarie, nonché la circostanza per cui l’omessa chiamata in causa dell’ente creditore determina conseguenze solo sul piano meramente sostanziale (obbligo di risarcimento del danno), mentre non incide minimamente sul rapporto processuale già instaurato tra contribuente ed agente della riscossione, come confermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la pronuncia del 25.07.2007 n°16412, i principi enunciati dalla Suprema Corte di Cassazione, qui avente funzione nomofilattica, sono stati fatti propri dalla Direzione Centrale dell’Agenzia delle Entrate con la circolare n°51/E del 17.07.2008.

Dalla natura meramente sostanziale della litis denuntiatio consegue che la chiamata in causa dell’ente creditore, ex art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999, può avvenire con qualunque modalità (raccomandata a.r.; notifica tramite ufficiale giudiziario, ecc.), liberamente scelta dall’agente della riscossione, idoneo a portare a conoscenza dell’ente l’esistenza della lite.

Pertanto, l’agente della riscossione non abbisogna di alcuna autorizzazione (da parte del giudice) per chiamare in causa l’ente creditore, perché l’art. 269, terzo comma, c.p.c. impone solo all’attore, che intenda chiamare un terzo, l’onere di chiederne preventiva autorizzazione al giudice, mentre l’agente della riscossione, nel processo tributario, assume la posizione processuale di resistente, assimilabile a quella del convenuto nel giudizio ordinario di cognizione.

Per la verità, occorre dire che tutto l’art. 269 c.p.c. appare incompatibile con la struttura del processo tributario, atteso che, in quest’ultimo, non esiste la figura del Giudice istruttore e non è prevista alcuna forma di citazione.

Attendere, dunque, l’udienza di trattazione del merito del ricorso per chiedere e ottenere l’autorizzazione a chiamare in causa l’ente creditore appare, oltre che sommamente inutile, gravemente lesivo della posizione del contribuente e dei principi che sorreggono l’intero sistema processuale.

Se all’udienza di trattazione del merito, in maniera sistematica, la trattazione del ricorso venisse rinviata (per periodi di solito non inferiori a 6-8 mesi) al fine di autorizzare e consentire la chiamata in causa dell’ente creditore, in caso di soccombenza del contribuente, gli interessi di mora nel frattempo maturati graverebbero ingiustificatamente su quest’ultimo, rendendone più oneroso l’esercizio del diritto di difesa, con conseguente violazione della norma costituzionale che ne garantisce il libero esercizio.

Maggior danno, subirebbe comunque il sistema processuale, anzitutto, in termini di ragionevole durata del processo, perché verrebbe ingiustificatamente disatteso il principio sancito dall’art. 111 della Costituzione, che impone la concentrazione del tempo della lite.

A ciò si aggiunga che la Suprema Corte di cassazione (con sentenze 8 febbraio 2006, n. 2787 e 11 dicembre 2006, n. 26345) ha affermato il principio di diritto secondo il quale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 32 del D.Lgs. n. 546/1992, i documenti non prodotti venti giorni liberi prima dell’udienza di merito non possono più prodursi, con la conseguenza che resta inibito al Giudice fondare la propria decisione sui documenti tardivamente prodotti, anche nel caso di rinvio dell’udienza su richiesta del difensore o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva.

Alla luce dell’indicato principio di diritto, considerato che l’ente creditore entra nel processo con tutte le preclusioni che nel frattempo sono maturate, risulta evidente che, se l’agente della riscossione dovesse attendere l’udienza di trattazione del merito per essere autorizzato a chiamare in causa l’ente creditore, a quest’ultimo resterebbe preclusa ogni attività difensiva, in quanto, così come statuito dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con sentenza 5 giugno 2006, n. 52, l’Ufficio, se non si costituisce entro i termini perentori previsti dall’art. 32 del D.Lgs. n. 546/1992, non può nemmeno partecipare all’udienza di trattazione.

La chiamata in causa dell’ente creditore successivamente alla udienza di trattazione, non consentendo a quest’ultimo di esercitare alcuna attività difensiva è, pertanto, priva di utilità alcuna, e non vale, di certo, ad esonerare l’agente della riscossione dall’obbligo del risarcimento del danno previsto dall’art. 39 del D.Lgs. n. 112/1999.

Conferma, infine, l’incompatibilità dell’art. 269 c.p.c. con la struttura del processo tributario il fatto che, se l’agente della riscossione, dopo avere chiesto ed ottenuto l’autorizzazione del Giudice, per un motivo qualunque, non procede a chiamare in causa l’ente creditore, il giudizio, ai sensi e per gli effetti del disposto normativo contenuto nell’art. 45 del D.Lgs. n. 546/1992, si estingue per inattività delle parti, con gravissimo danno per l’incolpevole contribuente.

Tanto premesso e ritornando alla sentenza della C.T. Provinciale di Enna si evidenzia come a fronte della contestazione del ricorrente (la sottoscrizione del ruolo da parte dell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate) scatta l’onere della prova del fatto contestato. Nei casi di censura su vizi della pretesa, il “vero” resistente è l’Agenzia ma, dall’altro canto, le norme consentono al contribuente di evocare in giudizio il solo concessionario, onerando questi (e non il ricorrente o il giudice) di evocare in giudizio l’Agenzia, esponendosi a responsabilità in caso di omissione.

Ne consegue che, se il concessionario chiama in giudizio l’Agenzia, essa potrà adempiere il proprio onere della prova e nessuna conseguenza si produce per il concessionario, viceversa se questi, invece sceglie di non effettuare la chiamata, come è possibile senza alcuna conseguenza sulla validità del processo stante l’art. 39 D.Lgs 112/1999, il giudice non dovrà difatti supplire con un ordine proprio a una negligenza della parte che avrebbe dovuto provvedervi e, quindi, giustamente, non dispone una chiamata che il concessionario poteva tranquillamente fare da sé perdendo la lite per negligenza propria.

Per tali ragioni i ruoli dovranno essere considerati tamquam non esset, tale inesistenza dei ruoli si ridonda sulla infondatezza delle cartelle che ne rappresentano il suo contenitore.


Francesco Masala

Dottore commercialista in Porto Torres


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