Prima della riforma del 2020 la precedente formulazione dell’art. 323 c.p. puniva a titolo di abuso d’ufficio il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti” intenzionalmente procurava “a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale” ovvero arrecava “ad altri un danno ingiusto”.

Il legislatore del 2020 con un interessante intervento di “chirurgia normativa” ha modificato il predetto articolo sostituendo le parole “di norme di legge o di regolamento” con quelle “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, ritenendo solo le condotte di violazione di queste ultime penalmente rilevanti ai fini di una efficace ed esaustiva tutela dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 della Costituzione quali valori fondanti posti a presidio della attività dalla medesima espletata nell’interesse pubblico della collettività.

In luogo del generico ed indeterminato richiamo alla violazione di norme di legge o di regolamento prevista dalla previgente formulazione normativa si pretende oggi dunque che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata nel concreto esercizio delle funzioni o del servizio dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa le quali siano preordinate dalla legge – non rilevando dunque i regolamenti né eventuali fonti sub primarie o secondarie – e dalla legge stessa specificatamente espresse in termini completi, puntuali e dettagliati.

Dal predetto intervento correttivo ne discente come evidente corollario una limitazione dell’area penalmente rilevante rispetto a quella disegnata dalla precedente costruzione normativa: infatti stante l’attuale dictum dell’art. 323 c.p. si evince una netta e chiara limitazione di responsabilità qualora le regole comportamentali consentano al funzionario di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa (anche tecnica) intesa quest’ultima come autonoma scelta di merito effettuata all’esito di una ponderata e comparata valutazione tra gli interessi pubblici e privati sottesi e coinvolti nel suo potere di agire ex lege attribuitogli al fine del perseguimento del primario interesse pubblico cui appunto la pubblica amministrazione è preposta.

Ovviamente questa restrizione del novero delle condotte penalmente rilevanti incontra il limite dello “sviamento di potere” e dei cosiddetti “limiti esterni della discrezionalità”, posto che ovviamente dovrà ritenersi in ogni caso penalmente perseguibile il funzionario pubblico che nell’esercitare il potere discrezionale conferitogli trasmodi in una vera e propria distorsione funzionale dei fini pubblici, perseguendo in concreto interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli in relazione ai quali il potere discrezionale risulta essere stato attribuito oppure continuando ad agire in sussistenza di una situazione di conflitto di interessi in violazione del precipuo obbligo di astenersi, che è l’ulteriore condotta alternativa mediante la quale si può realizzare il reato di abuso d’ufficio sia secondo la vecchia che secondo la nuova formulazione in lineare continuità normativa.

Tale continuità normativa non sussiste invece per le altre condotte contemplate nella formulazione previgente ed espunte invece dal legislatore del 2020, ovvero le condotte realizzate mediante violazione di norme regolamentari o sub primarie o espressione di principi generali (come sopra evidenziato infatti il nuovo art. 323 c.p. parla solo di violazione di specifiche regole sancite dalla legge o da atti ad essa equiparati con esclusione dunque delle fonti secondarie) o di norme di legge generali ed astratte dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità, posto che – come visto – la nuova formulazione sottrae altresì al sindacato del Giudice penale il mero “cattivo uso” del potere, ovvero il sindacato sulla violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio della discrezionalità amministrativa.

In relazione alle predette condotte si è dunque verificata una vera e propria abolitio criminis ex art. 2 c.p. in virtù del quale “nessuno può essere punito per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisce reato”, con la conseguenza che se vi è stata condanna ne devono cessare immediatamente l’esecuzione e gli effetti penali, mentre i processi pendenti devono chiudersi con proscioglimento dell’imputato ex art. 530 c.p.p. con la formula “perché il fatto non è  più previsto dalla legge come reato”.

Oltre a profili di diritto intertemporale la novella ha altresì suscitato dubbi di legittimità costituzionale espressamente sollevati dal G.u.p. del Tribunale di Catanzaro in relazione appunto all’art. 23 comma 1° del D.L. n. 76/2020 (“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”) – convertito con Legge n. 120/2020 – il quale ha modificato l’art. 323 c.p. nei termini sopra descritti ed analizzati.

In particolare il Giudice remittente sosteneva la totale estraneità della novella riformatrice – contemplata nel predetto art. 23 – rispetto alle finalità genericamente perseguite dal decreto legge ove è stata inserita, posto che tale decreto è composto da un corpus eterogeneo di norme tutte accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il lockdown ed il correlato blocco cagionato dalla nota crisi pandemica: ebbene secondo il ragionamento del G.u.p. di Catanzaro la riforma dell’art. 323 c.p. inglobata nel D.L. n. 76/2020 nulla avrebbe a che vedere con il raggiungimento delle predette finalità, essendone al contrario totalmente avulsa e, oltre a ciò, difetterebbero anche i requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che sono sanciti dalla nostra Costituzione quali presupposti legittimanti della decretazione d’urgenza ex art. 77 della Costituzione.

La questione è stata di recente risolta dalla sentenza n. 8 del 2022 della Corte Costituzionale la quale ha respinto le sollevate censure di illegittimità costituzionale con un iter argomentativo alquanto singolare ed originale in quanto la discrasia palesata dal Giudice remittente è stata composta facendo perno sulla evidente necessità del legislatore di risolvere con la riforma adottata il cosiddetto problema della “paura delle firme”, che a detta della Consulta sussisteva con la pregressa formulazione dell’art. 323 c.p.: in particolare sottolineano i Giudici l’ampiezza delle condotte penalmente rilevanti in punto abuso d’ufficio hanno spesso frenato in passato i pubblici funzionari proprio per il timore di trovarsi esporsi a possibili addebiti penali, con ciò pregiudicando e frustrando in concreto l’effettivo perseguimento dei fini pubblici medesimi.

Così ragionando la Corte è dunque giunta a ritenere in primis coerente l’inserimento della riforma dell’abuso d’ufficio nel D.L. n. 76/2020 sia in relazione alle finalità dallo stesso perseguite sia con i presupposti di urgenza e necessità costituzionalmente richiesti, in quanto tale riforma si inserirebbe nel più ampio obiettivo nonché esigenza occasionata dall’emergenza covid di far ripartire il Paese celermente in un contesto di maggior efficienza e tutela dell’imparzialità ma soprattutto del buon andamento della pubblica amministrazione, correggendo tutte quelle storture che potrebbero appunto “bloccare” il libero esplicarsi dell’agere pubblico nel perseguimento delle sue precipue finalità istituzionali anche nell’ottica di una veloce ripresa economica.

La sentenza inoltre, a chiusura del suo iter argomentativo, ricorda che la tutela penale deve comunque essere considerata una extrema ratio in virtù della quale spetta al legislatore scegliere se ricorrervi o meno selezionando le condotte da considerarsi penalmente rilevanti quando non ritenga adeguati altri ed alternativi mezzi di tutela, selezione che appunto compete al suo libero e discrezionale apprezzamento in un sistema giuridico palesemente improntato come il nostro sul principio di legalità ex art. 25 della Costituzione.

Ineccepibile in punto coerenza espositiva il ragionamento della Corte, ma non possono non ravvisarsi delle incongruenze logiche posto che non si comprende come ed in che modo una restrizione delle condotte penalmente rilevanti, rendendo apparentemente più “libera” e meno sindacabile l’agere della burocrazia pubblica, possa certamente comportare in concreto un automatico vantaggio – con un nesso di diretta derivazione causale – in termini di maggiore efficienza e miglior perseguimento dei fini pubblici.

Trattasi infatti di un automatismo meramente presunto e presuntivo non sorretto da alcuna ragione evidente, dato che maggior libertà e controlli meno penetranti non è detto che equivalgano con linearità di equazione ad una pubblica amministrazione maggiormente efficiente nei risultati, anzi spesso sono proprio controlli più blandi a dare adito a sperequazioni e/o ad abusi, con la conseguenza che il ragionamento della Corte Costituzionale seppur ineccepibilmente argomentato sembra concretizzarsi più che altro – a modesto parere di chi scrive – in una forzatura meramente atta a salvare dalla illegittimità costituzionale una riforma in materia di abuso d’ufficio inserita in un contesto di decretazione d’urgenza che molto probabilmente non era propriamente idoneo ad accoglierla, sia per difetto in concreto dei presupposti costituzionali previsti dall’art. 77 della Costituzione legittimanti tale istituto sia per l’associazione ad un fine quale la “semplificazione in vista di una celere ripresa economica post covid” che per le ragioni sopra esposte non pare avere molto in comune con una restrizione delle condotte penalmente rilevanti di abuso d’ufficio, se non ricorrendo a meri artifici argomentativi volti a trovare a tutti i costi una identità di ratio sottesa.


Avv. Antonella Florio

www.avvocatoantonellaflorio.it

(Foro di Milano)

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