Commento Cass., Sez. I, 30.06.2021, n. 18610

Il caso

La Corte d’appello di Roma ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale di Frosinone che aveva dichiarato inammissibili le domande proposte dal Fallimento contro cinque banche, volte all’accertamento della nullità dei contratti di finanziamento e della convenzione ad essi relativa, con la condanna alla restituzione degli interessi pagati, o, in subordine, al risarcimento del danno da concessione abusiva di credito, pari al depauperamento del patrimonio netto della società.

La Corte d’Appello ha ritenuto la curatela priva di legittimazione ad agire con riguardo alla domanda di risarcimento del danno e reintegrazione del patrimonio della società fallita, eroso a causa dell’abusiva concessione di credito da parte delle banche. Ciò, in quanto la procedura ha agito deducendo non l’attività illecita compiuta dalla stessa società fallita tramite i suoi amministratori, rientrante nella L. Fall., art. 146, ma un’autonoma e distinta attività imputata alle singole banche, onde si tratta di azione estranea alla norma menzionata; mentre il curatore, per essere legittimato attivo all’azione verso i terzi, deve azionare una pretesa che si colleghi direttamente e primariamente su un fatto (illecito o meno) commesso anche dalla società fallita tramite i suoi amministratori (cui ascrivere una delle responsabilità previste agli artt. 2393 e 2394 c.c.), dovendo quindi coinvolgere il terzo in concorso con il fallito e provare tale concorso, che abbia cagionato un danno alla massa dei creditori.

Invece, nella specie, il curatore ha dedotto il compimento di un atto autonomo rispetto a quelli gestori compiuti dagli organi sociali, in cui la curatela ha allegato che la società ha visto progressivamente erodere la propria consistenza patrimoniale a causa dei prestiti concessi e dei relativi oneri finanziari, con gravi perdite, sino all’azzeramento del capitale sociale: quindi, la procedura non ha proposto un’azione di responsabilità anche nei confronti degli amministratori della fallita, ma solo un’azione di responsabilità aquiliana contro le banche.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello il fallimento soccombente ha proposto ricorso per cassazione. 

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ha cassato la sentenza impugnata ed ha rinviato la causa alla Corte d’appello.


Le questioni giuridiche

Vari sono stati i temi affrontati dalla Corte in Sentenza. In questa sede si rileva come la Corte di Cassazione abbia evidenziato la necessità di un bilanciamento degli interessi nella distinzione tra finanziamento lecito e finanziamento abusivo. Secondo i supremi Giudici tale sistema è ispirato al criterio della meritevolezza dell’ausilio creditizio all’impresa in crisi, allo scopo di evitarne il fallimento e soddisfare meglio i creditori, tanto da indurre il dubbio della sua compatibilità con la predetta responsabilità dell’operatore bancario per l’incauto finanziamento: compatibilità tuttavia ritrovata, ove solo si consideri che, in tutti quei casi, si tratta di norme speciali che introducono meccanismi procedimentalizzati e fondati su precisi presupposti e controlli, idonei a renderli utili, per definizione, allo scopo di un progetto economico-finanziario volto al recupero della continuità aziendale, e non, piuttosto, fattori di mero aumento del dissesto.

Da quel sistema la Corte trae utili indicazioni al tema in discorso: esso vale a chiarire come, e la Corte lo ha già rilevato (cfr. Cass. 5 agosto 2020, n. 16706), gli istituti di ordinario supporto ai deficit di liquidità delle imprese in crisi stiano proprio ad indicare il necessario spazio, anche ai sensi dell’art. 41 Cost., di un possibile e lecito finanziamento all’impresa in crisi, non solo nell’ambito dei negozi connotati da un formalizzato progetto di sostegno alle medesime, ma anche al di fuori di essi; sino al limite, tuttavia, in cui tali condotte finiscano per alterare - con colpa o dolo - la correttezza delle relazioni di mercato e a costituire fattori di disinvolta attitudine cd. predatoria rispetto ad altro soggetto economico in dissesto.

Vero è che - ammettono i giudici -, di fronte alla richiesta di una proroga o reiterazione di finanziamento, la scelta del buon banchiere si presenta particolarmente complessa: astretto com’è tra il rischio di mancato recupero dell’importo in precedenza finanziato e la compromissione definitiva della situazione economica del debitore, da un lato, e la responsabilità da incauta concessione di credito, dall’altro lato.

Ogni accertamento, ad opera del giudice del merito, dovrà essere rigoroso e tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, secondo il suo prudente apprezzamento, soprattutto ai fini di valutare se il finanziatore abbia (a parte il caso del dolo) agito con imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p., o abbia viceversa, pur nella concessione del credito, attuato ogni dovuta cautela, al fine di prevenire l’evento.

Tale seconda situazione potrà, continuano i supremi giudici, verificarsi ove la banca - pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell'impresa - abbia operato nell’intento del risanamento aziendale, erogando credito ad impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito allo scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile.

E' peraltro richiesto che, nella formulazione delle proprie valutazioni, la banca proceda secondo lo standard di conoscenze e di capacità, alla stregua della diligenza esigibile da parte dell’operatore professionale qualificato, e ciò sin dall’obbligo ex ante di dotarsi dei metodi, delle procedure e delle competenze necessari alla verifica del merito creditizio. Sarà compito del giudice del merito individuare lo spazio ammissibile per il finanziamento lecito, allorchè, pur se concesso in presenza di una situazione di difficoltà economico-finanziaria dell’impresa, sussistevano ragionevoli prospettive di risanamento.

Quel che rileva, specifica la Corte, non è più il fatto in sè che l’impresa finanziata sia in stato di crisi o d’insolvenza, pur noto al finanziatore, onde questi abbia così cagionato un ritardo nella dichiarazione di fallimento: quel che rileva è unicamente l’insussistenza di fondate prospettive, in base a ragionevolezza e ad una valutazione ex ante, di superamento di quella crisi.

Al riguardo, un criterio di diritto positivo può essere rinvenuto nell’art. 67 L. Fall.: il quale, similmente al D.Lgs. n. 14 del 2019, artt. 56 e 284, menziona il piano "che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria".

Un utile ausilio, in tal senso, può trarsi altresì dai criteri enunciati dall'art. 69-quinquiesdecies t.u.b., introdotto dal D.Lgs. 16 novembre 2015, n. 181: norma che, sia pure nell’ambito del sostegno finanziario infragruppo, indica le condizioni in cui esso è lecito, proprio enunciando i criteri in base a cui si può ragionevolmente prospettare che il sostegno fornito ponga sostanziale rimedio alle difficoltà finanziarie del beneficiario e vi è la ragionevole aspettativa... che sarà pagato un corrispettivo e rimborsato il prestito da parte della società beneficiaria.

L’intrinseca ragionevolezza di tali criteri può, a giudizio della Corte, offrire logici parametri anche per la valutazione del caso in esame. Onde, allorchè la banca effettui finanziamenti all’impresa in stato di crisi, vuoi all’interno di una soluzione concordata, vuoi indipendentemente da essa, quello indicato potrà costituire il parametro per valutare la ravvisabilità, oppure no, di una responsabilità per concessione abusiva di credito; dovendosi, peraltro, osservare come, in ipotesi di procedura formalizzata e sottoposta a controlli esterni, i margini di tale responsabilità saranno, in concreto, alquanto ristretti.

Con riferimento poi alla legittimazione attiva del curatore fallimentare per i danni alla società i supremi giudici ritengono che in caso di fallimento, per il ristoro di tale pregiudizio, è legittimato ad agire lo stesso curatore fallimentare, anzitutto al medesimo titolo per il quale avrebbe potuto agire l’imprenditore danneggiato. Al riguardo, la Corte si è idealmente ricollegata ai precedenti della stessa giurisprudenza di legittimità che, operando opportuni distinguo quanto alle domande proposte nel processo ed alle vicende esaminate, rispetto alle pronunce delle Sezioni unite del 2006 (Cass., sez. un., 28 marzo 2006, nn. 7029, 7030 e 7031), hanno reputato proponibile l’azione risarcitoria del curatore nei confronti delle banche per l’imprudente concessione del finanziamento. In tal senso, dapprima Cass. 1 giugno 2010, n. 13413 ha chiarito che il curatore è legittimato ad agire nei confronti della banca "quale responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita dall’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della stessa società, senza che possa assumere rilievo il mancato esercizio dell’azione anche contro l’amministratore infedele"; pur avendo ivi concluso per l’inammissibilità del motivo, che non riportava in modo autosufficiente l’avvenuta proposizione della domanda contro la banca. Quindi, Cass. 20 aprile 2017, n. 9983 ha reputato la legittimazione attiva del curatore nell’azione di risarcimento del danno nei confronti della banca, quando la posizione a questa ascritta sia di terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società, che abbia perduto interamente il capitale, dinanzi all’avventata richiesta di credito e ad una parimenti avventata concessione di credito da parte della banca.

Circa la domanda di risarcimento del danno derivante dalla dichiarazione di fallimento, proposta nei confronti di un terzo al cui comportamento illecito sia addebitata la verificazione dello stato di insolvenza, la Corte ribadisce che il curatore è legittimato a far valere la responsabilità di terzi per fatti anteriori e colpevolmente causativi dello stato di insolvenza (diversi spunti in Cass. 15 giugno 2020, n. 11596, non massimata; cfr., inoltre, le ivi citate Cass. 18 aprile 2000, n. 5028; Cass. 19 settembre 2000, n. 12405; Cass. 10 gennaio 2005, n. 292; Cass. 25 marzo 2013, n. 7407; cui adde Cass. 20 maggio 1982, n. 3115).

Inoltre, la Corte sottolinea come il curatore che agisce per il ristoro del danno alla società tuteli nel contempo la massa creditoria dalla diminuzione patrimoniale medesima. Un simile danno riguarda tutti i creditori: quelli che avevano già contrattato con la società prima della concessione abusiva del credito de qua, perchè essi vedono, a cagione di questa, aggravarsi le perdite e ridursi la garanzia ex art. 2740 c.c.; quelli che abbiano contrattato con la società dopo la concessione di credito medesima, perchè (se è vero che a ciò possa aggiungersi pure la causa petendi di essere stati indotti in errore, ed allora individualmente, dall’apparente stato non critico della società, è pur vero che) del pari avranno visto progressivamente aggravarsi l’insufficienza patrimoniale della società, con pregiudizio alla soddisfazione dei loro crediti. In tal modo, mediante l’esperimento dell’azione, si produrrà un beneficio per i creditori, come avviene nell’esperimento delle azioni revocatorie ed altre similari in favore della massa: in quanto per tutti i creditori, il cui credito sia sorto vuoi prima, vuoi dopo la concessione di credito imputata di abusività, se il risultato a questa eziologicamente collegato sia il compimento di ulteriore attività d’impresa con aggravamento del dissesto societario, le perdite da ciò derivate comporteranno una matematica riduzione della garanzia patrimoniale generica, l’insufficienza del patrimonio d’impresa a soddisfare i crediti, ed, in definitiva, un danno riflesso, che il curatore potrà reintegrare grazie all’azione di risarcimento del danno cagionato al patrimonio della società, anche nella sua veste di legittimato attivo per conto dei creditori. Dalla diminuzione del patrimonio sociale, a causa della ininterrotta attività d’impresa pur in presenza di una causa di scioglimento, deriveranno verosimilmente minori riparti fallimentari, quale pregiudizio al cui ristoro provvede quindi l’azione del curatore, essendo in tal caso propria dell’organo la titolarità esclusiva dell’azione risarcitoria. L’azione si inserisce, pertanto, nell’ambito di quelle a legittimazione attiva della curatela: in tal senso, si vedano la L. Fall., art. 146 e il D.Lgs. n. 14 del 2019, art. 255, quest’ultimo espressamente attributivo al curatore della legittimazione alle azioni, fra l’altro, di cui all'art. 2394 c.c. e art. 2476 c.c., comma 6 (per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale, con insufficienza del medesimo a soddisfare i crediti) e all’art. 2497 c.c., quanto all’azione dei creditori sociali per la lesione cagionata dalla capogruppo all’integrità del patrimonio della società. Come si osserva, al curatore sono attribuite azioni relative al risarcimento del danno al patrimonio sociale, nell’interesse dei creditori.

Ancora, prosegue la Corte, nell’agire per il ristoro contro il finanziatore, il curatore tutela sia la società, sia la massa creditoria dalla diminuzione patrimoniale medesima. Analogamente al sistema dell’art. 146 L. Fall. al curatore appartiene sia la legittimazione attiva a richiedere al finanziatore c.d. abusivo il  risarcimento per i danni diretti cagionati alla società, sia quella per i danni indiretti alla massa dei creditori. In entrambi i casi, il curatore non fa altro che agire a reintegrazione del patrimonio sociale pregiudicato dall’abusiva concessione del credito.


Presupposto di entrambe le azioni del curatore - quella contro gli amministratori prevista dall'art. 146 L. Fall., quella contro il finanziatore abusivo secondo il diritto comune di cui agli artt. 1218 e 2043 c.c. - sta nella diminuzione del patrimonio sociale, per la prosecuzione dell’attività d’impresa con aggravamento del dissesto.

Dunque, chiosa la Corte, con l’abusiva concessione del credito si può cagionare non soltanto il danno alla "libertà contrattuale" o di autotutela di chi abbia concesso la sua fiducia all’imprenditore (sempre che non si sia incolpevolmente avveduto delle reali condizioni dello stesso), ma anche la lesione - che dal primo è distinta - all’integrità della garanzia patrimoniale per tutti i creditori, anteriori o posteriori all’operazione bancaria, ammessi al passivo o a ciò aventi diritto.

Si tratta di una distinzione di fattispecie che, se si vuole, trova fondamento positivo, se solo si esamina già l’art. 240, comma 2, L. Fall., laddove attribuisce ai singoli creditori la facoltà di costituzione in proprio di parte civile nei processi penali di bancarotta, solo quando "intendono far valere un titolo di azione propria personale", in caso contrario essendo legittimati "il curatore, il commissario giudiziale, il commissario liquidatore e il commissario speciale di cui all'art. 37 del decreto di recepimento della dir. 2014/59/UE".


Le conclusioni

In conclusione, nella sentenza in commento la Corte di Cassazione ha fissato i seguenti principi di diritto.

In merito all’erogazione abusiva del credito da parte delle banche i supremi giudici hanno statuito che "L’erogazione del credito che sia qualificabile come "abusiva", in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere egli venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l’aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell'attività d’impresa".

"Non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi".

Quanto alla legittimazione attiva del curatore fallimentare la Corte ha statuito che "Il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, in caso di illecita nuova finanza o di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all’impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all’intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c.".

Quanto alla responsabilità della banca il principio di diritto emerso in sentenza è che "La responsabilità in capo alla banca, qualora abusiva finanziatrice, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all’art. 146 L. Fall., in via di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c., quali fatti causatori del medesimo danno, senza che, peraltro, sia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di mero litisconsorzio facoltativo".


Note alla sentenza

La sentenza in commento evidenzia alcuni principi che sono perfettamente in linea con la ratio del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza nonché con gli obiettivi che il legislatore si è posto con la riforma del diritto fallimentare. 

Nonostante il nuovo codice della crisi non sia ancora entrato in vigore - ma lo sono le modifiche apportate dal D. L.vo 14/2019 al codice civile - rimane vivo nella giurisprudenza, così come nella legislazione positiva - si pensi, fra tutte, alla L. 147/2021 che introduce la Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa - il proposito di salvare quanto più possibile l’impresa e scongiurare il fallimento. Fallimento che viene oggi considerato dal legislatore una sorta di extrema ratio, da prendere in considerazione quando non se ne può fare più a meno. E’ infatti la tutela dell’impresa in quanto tale che il legislatore si è posto come obiettivo, laddove in passato, si pensi alla legge fallimentare del 1942 ancora oggi in vigore, mirava soprattutto a tutelare i creditori.

In quest’ottica lo stato di insolvenza, quale presupposto oggettivo del fallimento, assume una connotazione dinamica, di prospettiva futura. Non è sufficiente un singolo inadempimento per ritenere un’impresa in crisi ma è necessario considerare la sua capacità di produrre reddito fornendo i servizi o producendo i beni che gli sono propri: occorre, cioè, valutare la sua capacità di mantenere la continuità aziendale. 

Esiste indubbiamente un trade off tra stato di insolvenza e continuità aziendale: tanto più solida è la continuità aziendale tanto meno probabile sarà la possibilità che un’impresa diventi insolvente.

La sentenza in commento si pone in linea con la ratio sottesa alla riforma del diritto fallimentare: “la necessità di operare nell’ottica di un salvataggio delle imprese e della loro continuità quanto più ampio possibile, adottando lo strumento liquidatorio come extrema ratio cui ricorrere in assenza di concrete alternative” (Relazione illustrativa D.L. n. 23 dell’8 aprile 2020, c.d. “Decreto liquidità”). In quest’ottica la sentenza afferma, per esempio, che a rilevare non sia più il fatto in sè che l’impresa finanziata si trovi in stato di crisi o d’insolvenza, pur noto al finanziatore; quel che rileva è unicamente l’insussistenza di fondate prospettive, in base a ragionevolezza e ad una valutazione ex ante, di superamento di quella crisi. Conseguentemente, la Corte riconosce che sovente il confine tra finanziamento meritevole e finanziamento abusivo si fonderà sulla ragionevolezza e fattibilità di un piano aziendale.

I supremi giudici sottolineano inoltre come il nuovo art. 2086 c.c., comma 2, nel testo introdotto dal D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, abbia anticipato il dovere di rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, imponendo l’adozione di un "assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato" e l’attivazione "di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale", secondo concetti già emersi con la riforma del diritto societario all’art. 2381 c.c. In quest’ottica, la soglia di prevenzione della crisi da parte dell’imprenditore si appalesa molto alta rispetto al passato: essa è anticipata alla fase della nascita dell’impresa, posto che già allora l’imprenditore dovrà predisporre un’organizzazione che sia adeguata all’attività che intende avviare e che sia dotata di tutti gli strumenti idonei a cogliere i primi indizi di un’eventuale crisi.

La sentenza in commento, dunque, affermando che “non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato”, si pone come un’esemplificazione plastica del cosiddetto “diritto vivente”, che porta avanti la volontà della legge e rende pratico e reale il fine legislativo di salvaguardare l’impresa in quanto tale e non solo l’imprenditore o i creditori. E’ infatti questo il trend seguito dal legislatore italiano: trend sollecitato dall’Unione Europea - si pensi, da ultimo, alla Direttiva Insolvency - ma già caldeggiato e adesso fatto proprio dalla giurisprudenza di casa nostra.


Avv. Girolamo Lazoppina

Articolo originariamente pubblicato su: www.studiolegalelazoppina.com

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