Internazionalizzare come specifica attività aziendale è concetto pressoché solo italiano, perché, ad esempio nel mondo anglosassone o dell’Europa del Nord, culturalmente, l’imprenditore non si è mai concepito come racchiuso nei soli limiti nazionali, ha sempre considerato “naturale” pensarsi come un imprenditore “internazionale”. In Italia, invece, le PMI con vocazione ai mercati internazionali sono sempre state relativamente poche, anche per via di una situazione della gran parte dei mercati interni complessivamente motile e che consentiva spazi di manovra, almeno fino alla metà degli anni 2000. Le imprese con storie di successo all’estero si trovavano a descrivere la penetrazione nei mercati extra-italiani come quasi casuale, non frutto di una pianificata strategia ma di una serie di fortuite coincidenze spesso create a partire dall’indotto in cui si son trovate a lavorare.

Soprattutto a partire dagli anni ’90 si è assistito ad un inarrestabile processo di delocalizzazioni miopi e, in molti casi, suicide, spesso malamente emulate da parte di piccole e piccolissime imprese alla ricerca di facili margini commerciali o di (apparentemente facili) risparmi fiscali.

In alcuni casi è successo che i Paesi prescelti (frequentemente Paesi di confine, come si vedrà oltre) e nei quali si è investito in alternativa all’investire in Italia, hanno cambiato politica di “ospitalità fiscale” o, ironia della sorte, ex-dipendenti locali hanno imparato a produrre bene o anche meglio della casa madre, costituendo un nuovo problema di concorrenza per le imprese meno commercialmente avvedute e protette. Un caso su tutti è, ad esempio, quello del settore delle fisarmoniche di Castelfidardo, ormai riprodotte a basso costo e con ottima fattura da aziende cinesi. Ed è il caso di filiere di qualità in cui il subappalto delle manifatture in nero ad ex-dipendenti in Patria o all’estero ha dilapidato anni di know-how e di microeconomie locali come quelle del Cadore nel settore dell’ottica di qualità, del mobile imbottito in Puglia, dell’alluminio in Sardegna, dell’acciaio, e tutto questo anche perché, a fronte di riduzioni dei prezzi in un mercato nazionale da sempre trainato dal settore edile, oggi in crisi da anni, si è assistito ad un continuo aumento dei costi sul fronte delle materie prime.

A soffrire meno sono state e sono, in definitiva, le imprese che hanno avuto la lungimiranza (o la fortuna) di avere una forte quota di mercato all’estero. A morire o a boccheggiare in una pozzanghera sono rimaste le aziende che si rivolgono esclusivamente o quasi al mercato interno.

Per fare affari con successo non basta certo saper produrre bene. E’ anche necessario che il proprio mercato di riferimento sia in salute e che l’ambiente infrastrutturale e la direzione politica dell’economia sia di reale supporto al mondo della PMI e non solo della Grande Impresa. Ovviamente (ma li lascio per ultimi perché non sempre devono essere tra i primi motivi da prendere in considerazione), a non aiutare il complesso lavoro dell’imprenditore è anche il carico fiscale e il costo del lavoro. Di certo i bollettini macroeconomici dell’Italia oggi non sembrano volgere al bel tempo per il futuro, pur avendo già assistito ad un lungo periodo di pioggia battente… La Banca Mondiale nella classifica “Doing Business” che misura l’attitudine di uno Stato a stimolare le imprese, pone l’Italia al 56esimo posto su 189, superata, tra gli altri, da Sud Africa, Armenia, Romania, Turchia, Rwanda… E, osservando in particolare al ranking dei Paesi con noi confinanti e che da tempo, come si diceva, esercitano aggressivamente attività di marketing territoriale attrattivo nei confronti delle nostre regioni e province di confine, come può un imprenditore italiano non cedere alle sirene della Svizzera (ranking: 20), Austria (21), Macedonia (30), Francia (31)? O, soprattutto, del Regno Unito e di Londra: ottavo miglior posto? Beh, essere l’ottavo miglior posto al Mondo dove fare Business non può non essere un argomento convincente per un imprenditore intelligente.

In Italia, un’impresa con utili lordi pari a 100mila euro ne versa circa 60mila in tasse, imposte e contributi, oltre a immolare una buona parte della propria produttività sull’altare di una burocrazia lunare, di richieste d’ogni tipo da parte del’Agenzia delle Entrate, di corsi, accreditamenti, certificati, documenti, di una giustizia civile pachidermica, una Pubblica Amministrazione che per prima non paga con regolarità e incaglia l’intero sistema…

Per l’accesso al credito a Londra si è al 17° posto, contro l’89° dell’Italia, il che è ancora un altro argomento importante. L’Italia è al 116 posto nella semplicità dell’iter per le concessioni edilizie contro il 17° del Regno Unito. Sulla facilità con cui si pagano le tasse, Londra è al 16° posto e sono previsti ulteriori semplificazioni, Roma è, senza particolari stupori, al 141° posto. Il che vuol dire anche dover pagare care certe consulenze fiscali che restituiscono scarso valore aggiunto in termini di consulenza di direzione e ricadute sul fatturato o sull’efficenza dei costi, essendo la categoria dei commercialisti italiani assorbiti e soccombenti a fronte di una mole micidiale di adempimenti e responsabilità.

E rimanendo in tema di tassazione, una Limited (il corrispondente di una Srl italiana) nel Regno Unito è sottoposta ad un’imposta del 20% o del 21% (a seconda se l’utile netto al lordo delle imposte supera rispettivamente i £300,000 o i £1,500,000). L’obbligo di aprire una posizione IVA scatta solo se il fatturato supera £81,000 e l’aliquota IVA ordinaria è al 20%. Sono previste deduzioni fiscali sugli utili reinvestiti in azienda ed è prevista la compensazione delle perdite fiscali di natura commerciale con gli altri redditi e con gli utili generati prima o dopo, consentendo di spostare le perdite in avanti ed indietro a seconda delle ripercussioni fiscali più convenienti, consentendo, anche a distanza di anni di ricalcolare le imposte già pagate. Anche sui Capital Gain viene consentito di rinviare al futuro la tassazione nel caso in cui il guadagno venga reinvestito.

Inoltre Londra è la principale piazza finanziaria d’Europa (se non del Mondo) e un progetto d’investimento può trovare vie impensabili in Italia. La logistica a Londra, poi, è esemplare, anche da un punto di vista meramente doganale, soprattutto negli scambi extra-UE e con gli USA in particolare: l’intero Regno Unito brilla per efficenza e snellezza delle procedure.

Nonostante gli argomenti dei costi burocratici e fiscali siano un argomento importante, oggi si assiste quindi anche ad un sempre maggiore interesse verso l’internazionalizzazione per sviluppare il fatturato e le opportunità commerciali o la raccolta di risorse finanziarie, e non solo per cercare un risparmio sul fronte dei costi: la riduzione dei costi aziendali in Italia sono già da anni ridotti all’osso. In realtà le imprese nazionali soffrono soprattutto perché i propri mercati (locali) si sono ridotti o azzerati del tutto, non vi sono nuove commesse e perché il carico fiscale non consente di liberare risorse per gli investimenti in innovazione, complice un sistema dell’accesso al credito bloccato.

L’esigenza è oggi quindi di ripensare il prodotto, il mercato, i processi, la logistica, tutto in funzione di mercati che non possono più essere quelli italiani e italianofoni. Vendere o produrre all’estero oggi è l’unica prospettiva per chi voglia credere e investire ancora nella propria attività economica perché qui, parafrasando la celebre frase di Garibaldi a Nino Bixio a Calatafimi, “o ci si apre ai mercati internazionali o si muore…”

Come ci si prepara per aprire un’attività in Gran Bretagna? Aprire in UK è un passo molto importante ma ne vale la pena. La scena commerciale britannica e londinese, in particolare, è estremamente vibrante, competitiva e non sembra conoscere le crisi che stanno immalinconendo i nostri imprenditori italiani.

E prima di avviare l’azienda bisognerà sapersi muovere bene e conoscere profondamente come funziona il proprio settore. La preparazione è tutto e il primo passo è costruire un solido Business Plan che diventerà un necessario salvavita e uno strumento di facilitazione per l’accesso al credito. Oltre ad una profonda descrizione delle regole del proprio settore e del proprio mercato di riferimento, il vostro Business Plan dovrà essere realizzato in modo da consentirvi di prevedere accuratamente il fabbisogno finanziario della vostra azienda. I processi di internazionalizzazione non influiscono, infatti, solamente sulla funzione amministrativa, organizzativa, logistica e commerciale, ma impattano profondamente anche sulla gestione finanziaria. Il flusso di cassa, o meglio la mancanza di cassa, di liquidità, potrà uccidere sia una nuova azienda (prima ancora che decolli) che una consolidata impresa. Errori nei calcoli o (come spessissimo mi capita di osservare nella pratica professionale, anche in imprese apparentemente più strutturate) una imprecisa programmazione delle risorse necessarie per la gestione finanziaria possono portare imprese potenzialmente redditizie a ridursi finanziariamente in panne, e non solo a causa del famigerato “credit crunch” bancario di questi anni. Spesso si pretende dalle banche quel che non si è riuscito a realizzare internamente: un sistema funzionante di autofinanziamento, che generi cash flow positivo o che non soccomba sotto temporanei cash flow negativi. E questa è una regola generale che non vale, ahimé, soltanto per fare impresa nel Regno Unito…

Londra è una piazza che premia il rischio, l’iniziativa e la preparazione ed è di decisiva importanza affidarsi a professionisti esperti ed esperienti, operanti realmente in loco. In rete c’è una pletora di sedicenti fornitori di servizi, anche on line, che propongono assistenza alla costituzione di una LTD a prezzi da supermercato. Ed è qui che invece che bisogna fare molta attenzione. La consulenza ad un certo livello va pagata al corretto prezzo, ed è un investimento, non un costo. Anzi, se l’idea è quella di costituire on line una società a Londra e gestirla dall’Italia, pensando, così, di risparmiare sulle tasse, vi consiglio di non spenderli neanche quei pochi soldi che vi verranno risucchiati da fantomatici consulenti dietro una pagina web, perché potrete infilarvi in un ginepraio dolorosissimo di problemi fiscali in Italia: problemi di stabile organizzazione occulta e di esterovestizione, di transfer pricing, di riqualificazione dei redditi personali come nazionali, ecc… Un bravo professionista valuterà caso per caso, non esistono pacchetti di consulenza precostituiti. L’imprenditore accorto si affiderà a seri ed esperienti professionisti specializzati, che lavorino a Londra senza aver perso il contatto con l’Italia e i suoi bizantinismi fiscali, anche per non correre il rischio di veder vanificare i risultati dei propri progetti d’impresa.


Paolo Battaglia

Dottore Commercialista in Ragusa e ACA Chartered Accountant (ICAEW) a Londra


.