Seconda Camera Civile Tribunale d'Appello di Lugano. Una sentenza sui conti degli italiani
Posted by Zulay Manganaro on March 3 at 12:00 AM
La sentenza in esame, si colloca in un momento in cui è appena stato siglato l’accordo fiscale Italia-Svizzera, il primo marzo 2015, declamato dai media italiani come “la fine del segreto bancario” risalente a una legge federale del 1934; è entrata in vigore la legge 15 dicembre 2014 n. 186 dal primo gennaio 2015 la quale introduce sia la procedura di collaborazione volontaria – meglio conosciuta con l’anglismo “voluntary disclosure” sia il nuovo reato di autoriciclaggio attraverso l’art. 648 ter 1; è pendente la decisione sull’utilizzabilità o meno della cosiddetta “Lista Falciani”; notizie varie (ed eclatanti) sulla scoperta di conti di italiani – celebri o meno – all’estero. In una situazione in cui banche, contribuenti, presunti evasori, agenzie delle entrate sono protagonisti assoluti, il tribunale d’appello di Lugano, seconda camera civile, in data 12 febbraio 2015 pronuncia una sentenza esemplare, forte, decisa e lineare a cui vengono dedicate due colonne anche da “Il Sole 24 Ore” che intitola l’articolo del 17 febbraio: “Il Tribunale di Lugano libera i conti degli italiani”.
Troppi gli avvenimenti deliranti che si susseguono a velocità incalzante e le conseguenze che dall’Italia si propagano oltreconfine.
Se, sul fronte svizzero, le banche ricevono – di questi tempi – nuove direttive, o intraprendono “nuovi orientamenti commerciali” come si legge nella sentenza in esame, che hanno posto restrizioni all’utilizzo delle proprie relazioni da parte di titolari di conti non dichiarati in Italia, compresi forti limiti ai prelevamenti in contanti o trasferimenti, in virtù della firma del summenzionato accordo che depenni la Confederazione dalla black list ai sensi della voluntary disclosure italiana, d’altra parte si è percepita una pressione altissima cui ci si vuole sottrarre per non risentire degli effetti previsti da norme di rango primario e internazionale.
La vicenda prende spunto dalla richiesta di sottoscrizione della “Dichiarazione di conformità fiscale” (frequentemente definita tout court tax compliance) da parte della banca svizzera al proprio cliente, cittadino italiano, entro una certa data.
Il documento succitato consiste, sostanzialmente, in un’autodichiarazione che attesti che tutte le disponibilità finanziarie siano state correttamente dichiarate alle autorità competenti del proprio paese di residenza.
A distanza di pochi mesi, la banca comunica al proprio cliente la prossima chiusura della relazione, in forza di quel nuovo orientamento dell’attività commerciale, cui poc’anzi si è fatto cenno. Tre mesi dopo, la banca si doglia di non avere ancora ricevuto nuove istruzioni in merito al trasferimento dei fondi e, altresì, avverte che non sarà consentito alcun prelievo in contanti, pur avendo il cliente fatto richiesto (dapprima solo verbale) di poter procedere al ritiro di Euro 75’494.00 e al pagamento – tramite bonifico – di beni e servizi a favore di commercianti di Lugano. Presente il legale, durante una riunione con alcuni funzionari della banca non si acconsente in questo modo di procedere. Nella medesima sede, il cliente prende atto che – unitamente alle comunicazioni contemplate dal “Fermo Banca” (dichiarazione di conformità fiscale), si prevedeva una modifica delle condizioni generali.
Il ricorrente, oltre a contestare il mutamento delle condizioni contrattuali, impartisce in forma scritta, nuovamente, le medesime istruzioni. Alla lettera non è dato riscontro.
Si adiscono le opportune sedi giudiziarie in cui si riassumono le richieste sopra esposte. Il ricorrente deduce che non vi è base né legale né contrattuale per apporre restrizioni al proprio diritto di ritirare in contanti i propri averi.
Da parte sua, la banca, oltre a richiamare le proprie comunicazioni e condizioni generali: esterna il sospetto che la relazione contesa non sia fiscalmente conforme e adduce a sostegno delle proprie ragioni, le norme che prescrivono alla banca di gestire “i rischi legali e reputazionali”, sotto forma di direttiva, provenienti dalla FINMA (Autorità di vigilanza sui mercati finanziari), rinvenibili nella Legge sul riciclaggio di denaro (LRD) e relativa ordinanza FINMA che limitano l’attività di cassa; biasima il ricorrente per non aver giustificato a sufficienza le operazioni richieste; sostiene di dover valutare (rectius, prevenire) il rischio di reputazione pur non essendo ancora in vigore un’apposita norma di legge e dal combinato disposto di tali disposizioni ne è discesa l’impossibilità di adempiere ai sensi dell’art. 119 CO, rubricato “Impossibilità dell’adempimento” (che recita testualmente al secondo capoverso: “Nei contratti bilaterali il debitore così liberato è tenuto di restituire, secondo le norme dell’indebito arricchimento, la controprestazione già ricevuta e non può più chiedere quanto gli sarebbe ancora dovuto”).
A ciò si aggiunga, che è temuto il rischio di perseguimento penale in Italia per i reati di riciclaggio e contro la legislazione fiscale.
Il Pretore accoglie l’istanza dell’attore, ritenendo la pretesa fondata sul diritto privato; respingendo per contro che la banca potesse avvalersi di una modifica delle proprie condizioni generali né di una sua direttiva interna; che il timore di un perseguimento a opera delle autorità italiane non aveva ragione di sussistere per i clienti esistenti pur se condivisibile per quelli futuri; nel valutare l’impianto difensivo del convenuto, il primo giudice tiene ovviamente in considerazione il rigore nel volersi attenere a un’attività e a una reputazione “irreprensibili”, ritenendo – tuttavia – che nel caso concreto (per il valore di causa ridotto e per il fatto che parte attrice aveva verosimilmente giustificato i movimenti richiesti), il rifiuto interposto dalla banca di eseguire il pagamento in contanti “non costituiva un valido mezzo di tutela della sua attività irreprensibile”.
La banca soccombente impugna sentenza con appello.
Sia l’appellante sia l’appellato producono nuovi mezzi di prova e nuovi documenti.
Con un’unica decisione incidentale, i documenti prodotti in questa sede sono dichiarati inammissibili. La ratio della decisione fa applicazione del divieto di ius novorum nella procedura sommaria di tutela giurisdizionale nei casi manifesti (ex. Art. 257 cpc), laddove i giudici d’appello valutano i fatti esclusivamente sulle prove già oggetto di apprezzamento da parte del Pretore.
Passando all’aspetto puramente precettivo, la Corte traccia un excursus sul mezzo di gravame per antonomasia: l’appello. Così come previsto dal nuovo cpc – entrato in vigore in Svizzera nel gennaio del 2011 – nei suoi contenuti propositivi e demolitori; altrettanto fa a proposito dell’art. 257 cpc e ai casi in cui è accordata tutela giurisdizionale in procedura sommaria e precipuamente quando il fatto dedotto è incontestato, immediatamente comprovabile e la situazione giuridica sia chiara. Ne discende che se la controparte contesta i fatti allegati in maniera verosimile, detta forma di tutela non può essere accordata. La contestazione dev’essere tale da incidere ed essere in grado di mutare il convincimento del giudice.
L’orientamento prevalente nella giurisprudenza dell’Alta Corte, ritiene “chiara” la situazione giuridica ai sensi della norma, laddove la conseguenza giuridica discende limpidamente dall’applicazione della legge, tenuto conto delle posizioni di giurisprudenza e dottrina e del fatto che l’applicazione della legge medesima conduca a un unico risultato. Per converso, la situazione giuridica – normalmente – non si può definire “chiara” se ha costretto il giudicante a un proprio apprezzamento, o comunque a una decisione in equità a seguito di una valutazione di tutte le circostanze del caso concreto.
Con la prima censura, l’appellante deduce che il primo giudice avrebbe dovuto pronunciare in via pregiudiziale una decisione di non poter entrare nel merito, non potendosi applicare la procedura ex ar. 257 cpc al caso in esame, poiché il giudice è dovuto ricorrere a una valutazione personale – e di conseguenza discutibile – non basata su consolidati precedenti giurisprudenziali e dottrinari conformi e, pertanto, non rispondente alle esigenze prescritte dalla norma quivi invocata.
La censura non trova accoglimento, poiché neppure il caso manifesto può escludere un “ragionamento giuridico complesso e un apprezzamento dei fatti, in esito ai quali si giunga a una soluzione chiara in applicazione di meccanismi giuridici evidenti”. Si precisa che, effettivamente, al Pretore non spetta escludere l’applicazione della tutela manifesta per la sola ragione che il convenuto deduca argomenti solo in apparenza validi. Anche perché ciò svuoterebbe del proprio significato lo scopo e la ratio della norma. Si priverebbe il giudice di primo grado di quel necessario percorso logico-giuridico da intraprendere per argomentare e motivare la propria decisione, spiegare come si è giunti a essa (sia pure, a volte, succintamente).
Il secondo motivo di gravame, legato ai rischi legali e reputazionali specie in materia di attività transfrontaliera, è respinto per carenza di motivazione, e meglio perché l’appellante non adempie l’onere di spiegare per quali ragioni siano errate le motivazioni del Pretore, pur invocando a sostegno delle proprie argomentazioni, alcune disposizioni della LBCR, un rapporto, le prescrizioni e la “Posizione della FINMA sui rischi giuridici di reputazione nelle operazioni transfrontaliere aventi per oggetto prestazioni finanziarie”. Il giudice d’Appello specifica che la menzionata posizione non prescrive un obbligo diretto né prevede espressamente l’assoggettamento al diritto estero, pur tuttavia potendo la violazione dello stesso comportare collisione con norme di diritto svizzero aventi natura prudenziale e carattere aperto, tra cui – a titolo esemplificativo – proprio il requisito di garanzia di svolgere un’attività irreprensibile aggiungendo che i suddetti rischi devono essere oggetto di valutazioni, analisi approfondite, tradotte in direttive interne che approntino norme di comportamento, qualora ci si raffronti con attività portatrici di elementi di contatto con l’estero. Pur richiamando proprie direttive interne e un flusso d’informazione verso la FINMA circa la propria politica di gestione della materia in esame accolta positivamente da quest’ultima, l’allegazione resta priva di rispondenza probatoria.
L’appellante non spiega, inoltre, perché la restituzione al legittimo proprietario dei suoi averi sia “illecito e contrario al buon costume” così come in quale misura aderire alle istruzioni di un cliente rappresenti contributo a un delitto fiscale secondo l’ordinamento italiano.
Nel capitolo sei della sentenza in esame, ci si addentra nella materia che coinvolge sia il versante svizzero sia quello italiano, attuato attraverso la legge 186/2014 che introduce nel codice penale italiano il nuovo reato di “Autoriciclaggio” attraverso l’art. 648 ter 1. Il legislatore italiano ha inteso colmare una lacuna del proprio ordinamento, completando la fattispecie di “Riciclaggio”, già disciplinata dall’art. 648 bis cp. Parte della dottrina italiana, riteneva che venisse violato il divieto sostanziale del ne bis in idem, perseguendo il colpevole di riciclaggio, poiché l’autore della fattispecie sarebbe stato punito due volte per un medesimo fatto. L’art. 648 ter. 1, invece, prevede che soggetto attivo del nuovo reato di autoriciclaggio sia colui che ha commesso o concorso a commettere un delitto non colposo. Pertanto, si tratta di reato proprio. La condotta che concreta la fattispecie si sostanzia nell’impiego, sostituzione o trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative di tutti i proventi (siano essi denaro, beni o altre utilità) provenienti dalla commissione del delitto presupposto, ostacolando così l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Recita testualmente la nuova norma del codice penale italiano:
“Chiunque impiega i proventi di un delitto non colposo in attività economiche o finanziarie, ovvero li impiega con finalità speculative, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 10’000 ad euro 100’000, se dal fatto deriva nocumento alla libera concorrenza, alla trasparenza e all’andamento dei mercati. Se i proventi derivano da un delitto doloso per il quale è stabilita la pena della reclusione nel massimo fino a cinque anni, si applica la pena della reclusione fino a sei anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o finanziaria.La pena è diminuita nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 648. Si applica in ogni caso l’ultimo comma dell’art. 648”
Per evitare un trattamento eccessivamente sanzionatorio e, considerato “naturale” il comportamento in forza del quale l’autore del reato reimpiega i proventi di attività delittuose, il legislatore italiano ha limitato la punibilità del reimpiego di tali proventi ai soli casi di loro investimento in attività: economiche, finanziarie, speculative, imprenditoriali, disponendo – per contro – al quarto comma dell’art. 648 ter 1 che non sono punibili le condotte per cui denaro, beni e altre utilità vengano destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale. Concetti che dovranno essere riempiti di contenuto dalla giurisprudenza. La Cassazione si è già espressa sull’esclusione del concorso tra autoriciclaggio e associazione di tipo mafioso (ex art. 416 bis cp). Fatta salva la previsione di circostanze attenuanti (di cui una, avente carattere speciale) e aggravanti, la pena prevista per questa nuova fattispecie delittuosa è la reclusione da due a otto anni e la multa da 5’000 a 25’000 euro.
Ad ogni modo è prevista la confisca dei proventi che costituiscano profitto o prodotto, salvo che essi appartengano a persone estranee al reato e, se ciò non è possibile, il giudice ne dispone la confisca – anche per interposta persona – per un valore equivalente.
In sede d’appello, comunque, non s’intravede spazio per una valida invocazione della nuova disposizione italiana e di una recente sentenza di Cassazione italiana n. seconda sezione penale 22 ottobre 2014 n. 43881, in materia di riciclaggio, da cui si ricava la seguente massima: “il delitto in parola si ravvisa anche nella condotta di mero trasferimento del denaro di provenienza delittuosa da un contro corrente all´atro” poiché ciò costituisce un ostacolo alla tracciabilità del denaro”. Vi è da precisare, inoltre, che il valore di causa su cui Cassazione si è pronunciata, superava abbondantemente i 3’000’000.00 di euro. Nondimeno, s’invoca il dovere di adottare tutte le misure necessarie al recepimento dei nuovi articoli del codice penale svizzero 305 bis (“Riciclaggio”) e 305 ter (“Carente diligenza in operazioni finanziarie e diritto di comunicazione”). A prescindere dal principio di non retroattività posto a presidio del diritto penale e giacché la nuova formulazione degli artt. 305 bis e ter non è ancora entrata in vigore, non si riscontra correlazione tra il rischio reputazione, il reato di riciclaggio e il diritto del cliente della banca di chiedere e ottenere restituzione dei propri averi.
La seconda Camera civile del Tribunale d’Appello conferma così, la decisione del primo giudice, mentre intorno imperversa “il ravvedimento operoso” e riconoscendo che in questo clima di forti tensioni, pur nel rispetto della legalità e delle convenzioni, è necessario evitare uno stato dilagante, diffuso e indiscriminato di allarmismo.
Dott.ssa Zulay Manganaro
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