Il tema della violenza sulle donne è tristemente noto nella cronaca giornalistica e, ancor prima, nelle aule dei Tribunali non solo italiani ma di tutto il mondo. 

Purtroppo tale fenomeno si verifica non solo in ambito familiare ma anche sui luoghi di lavoro, ove tante volte si tace per timore di essere licenziate o addirittura per aver ricevuto minacce in tal senso.

E’ questo il caso trattato dalla Corte di Cassazione penale nella sentenza n. 49464/2022 riguardante il titolare di un bar condannato in primo e in secondo grado per i reati di mobbing sessuale e violenza sessuale – uniti dal vincolo della continuazione – per aver perpetrato continuamente ed insistentemente nei confronti delle sue dipendenti condotte palesemente offensive e lesive della loro sfera intima e sessuale in contesti a dir poco ambigui ed imbarazzanti. 

In particolare, come argomentano i Supremi Giudici, viene descritta una “condotta dell’imputato che, sia pur assumendo le vesti di teatrante nello scenario apprestato all’interno del bar dove persino i cocktail avevano denominazioni volgarmente erotiche, tali da esporre le sue dipendenti a penose battute se non ad incresciose richieste anche soltanto allusive giocate sul doppio senso, non solo non risparmiava pesanti apprezzamenti nei confronti delle due persone offese, ma indulgeva in condotte lesive della loro sfera sessuale (…)”.

Non potendo confermare per intervenuta prescrizione nel caso concreto il reato di mobbing sessuale, la Corte conferma però in ogni caso la sussistenza del reato di violenza sessuale disattendendo in toto le argomentazioni sul punto avverse avanzate dalla difesa dell’imputato, la quale negava la sussistenza del fatto tipico contestato asserendo che i toccamenti posti in essere da quest’ultimo avevano interessato “solo zone non erogene del corpo di entrambe le vittime” e che dunque l’asserita violenza doveva semmai ritenersi arrestata alla fase del mero tentativo.

Occorre al riguardo premettere che il discrimine fra l’ipotesi di violenza sessuale consumata e quella di violenza sessuale tentata è costituito, secondo la consolidata e più condivisibile opinione giurisprudenziale, dalla concreta intrusione dell’agente nella sfera di intimità della vittima, rimanendo il fatto solo allo stadio del tentativo ove la materialità degli atti – pur giudicati idonei sulla base della c.d. prognosi postuma ad inserirsi nella concatenazione causale indirizzata in maniera non equivoca alla commissione del delitto in esame – non abbiano comunque assunto natura sessuale. 

E’ pertanto dalla nozione e definizione di “atto sessuale” che occorre partire per poter addivenire alla suddetta distinzione tra fattispecie tentata e fattispecie consumata.

Ciò premesso, va evidenziato che il novero delle aree erogene – secondo la scienza medica e come ribadito in numerose sentenze di legittimità e di merito – non si limita alle zone genitali e alle zone del corpo propriamente sessuali, ma si estende sino a ricomprendere spalle, fianchi, glutei, guance, collo, ascelle ed altro. In questi casi si impone, evidentemente, una più attenta opera di decodificazione per verificare la finalità sessuale della condotta dell’agente potendo in astratto gli atti posti in essere rappresentare espressione di una diversa finalità (come accade ad esempio per i baci, le carezze o gli abbracci).

Inoltre poiché la dimensione della sessualità non può ritenersi confinata ad una estrinsecazione soltanto fisica, involgendo al contrario anche la dimensione psichica come quella emotiva – suscettibile di modularsi diversamente in relazione ai valori del comune sentire che mutano e al contempo si consolidano nello specifico contesto storico, culturale e sociale di riferimento – ne consegue che “la valutazione dell’atto, al fine di apprezzarne l’incidenza sulla libertà di autodeterminazione della persona offesa, debba tener conto della condotta nel suo complesso, rapportandola cioè all’ambito specifico in cui si è svolta, alle modalità in cui si è in concreto estrinsecata estese anche a quelle che la hanno preceduta o seguita, al rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e ad ogni altro dato fattuale che valga a connotarlo (Cfr. Sez. 3, Sentenza n. 43423 del 18/09/2019, Rv. 277179; Sez. 3, Sentenza n. 38926 del 12/04/2018, Rv. 273916)” (Cfr. Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 49464/2022).

Logico corollario di tali affermazioni – continua la Corte nella sentenza n. 49464/2022 sopra menzionata – è che all’interno di quella valutazione globale necessariamente contestualizzata che viene richiesta all'interprete in relazione ogni singolo contesto fattuale “la nozione di atto sessuale non può comunque essere ristretta al solo contatto con le zone genitali ma si estende al contatto con tutte le zone erogene”.

Non può pertanto parlarsi di tentativo allorquando – come nel caso concreto analizzato dalla Corte – “la condotta realizzata di toccamenti, baci sul collo, ecc. sulla vittima non consenziente, realizzata su zone erogene, persegua finalità di natura sessuale, in quanto, in tali circostanze, si è già verificata la lesione del bene giuridico protetto con la condotta posta in essere per la stimolazione della risposta sessuale. Nella specie gli atti posti in essere dall’imputato all’interno del particolare contesto lavorativo nel bar dove le due ragazze svolgevano attività di cameriere alle sue dipendenze durante l’orario di servizio, e, dunque, tale da non giustificare effusioni di natura amichevole o affettuosa, sono stati logicamente valutati come espressione di concupiscenza coinvolgente a tutto tondo la sessualità delle vittime. I toccamenti nei confronti della (Omissis), consistiti in strusciamenti del proprio corpo contro il fondo schiena della ragazza, in baci sul collo ed abbracci repentini non lasciano spazio ad interpretazioni diverse dalla natura sessuale degli atti. Anche per la (Omissis), i gesti dell’accarezzamento, sono anch’essi estrinsecazione di una pulsione libidinosa, in quanto volta a suscitare, per effetto dell’intenzionalità e al contempo dell’attenzione profusa nel gesto, l’eccitamento sessuale di chi lo riceve”. 

Per la Corte di Cassazione non c’è dubbio quindi: i comportamenti marcatamente allusivi del datore di lavoro nei confronti delle dipendenti, accompagnati da frasi di apprezzamento sulle fattezze fisiche di costoro e altresì da esternazioni libidinose, poste in essere in un'atmosfera di pesante promiscuità e sotto la più volte sottolineata minaccia del licenziamento non possono che essere ricondotte al reato previsto e disciplinato dall’art. 609-bis del codice penale nella forma consumata e non tentata.

 

Avv. Antonella Florio

Foro di Milano

www.avvocatoantonellaflorio.it


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